LA LUNA INUTILE (RACCONTO BREVE)

«Brindisino?».

«Lalà lalà lalààà!».

Si respirava un’atmosfera piuttosto euforica nella sede dell’associazione culturale “StraLunati” di Coldelmonte. Alterigio Qualunquelli, presidente del direttorio generale dei comitati periferici dell’associazione, aveva da poco annunciato una notizia di quelle “bomba”. Ebbene sì, il loro spettacolo teatromusidanzante — ancora senza nome, senza trama e senza programma — aveva ottenuto il patrocinio della Provincia. In altre parole, degli ingenti fondi a disposizione da spendere a piacimento e senza dover rendere conto a nessuno, eccezion fatta per il poco esigente pubblico coldelmontano.

«In alto i calici!».

L’impatto tra la ventina di bicchieri causò una leggera pioggia di prosecco misto ai residui dello Chardonnay e delle Ceres bevute nelle due ore precedenti. In sede erano attrezzati con un ben rifornito baretto, nelle occasioni importanti ingaggiavano persino un barman ma per quell’incontro improvvisato si era deciso di optare per qualcosa di più facilmente mescibile.

Dopo la breve riunione conclusasi con un salomonico vabbè poi al limite ci si aggiorna dopo le feste, il variegato gruppo di artistintellettuali si era addentrato già da qualche minuto nelle lande del cazzeggio spinto. Qualunquelli, ridendo sotto i baffi, si soffermò ad ammirare la propria creatura: un manipolo di inetti disposti a poco per mettere in scena il nulla. Personaggi ibridi, sfuggenti ma ancorati a delle necessità di cui non avevano mai fatto virtù: il dover sostenere le ormai defunte aspettative di genitori e insegnanti. Dell’arte lì non importava niente a nessuno, l’avevano messa da parte prima di impararla; era il mezzo per raggiungere un fine francamente ignoto a tutti.

Rotte ufficialmente le righe con l’ultimo brindisi, i presenti si divisero in capannelli. Alcuni improvvisarono una tragedia greca sull’imminente sessione d’esami universitari, curiosamente senza contemplare l’ipotesi di mettersi a studiare per superarli ma prodigandosi, in un secondo momento, nel perculamento di professori e matricole. A dirla tutta i primi iniziavano a essergli coetanei e i secondi potenzialmente figli, ma oramai dieci-quindici anni fuori corso equivalevano, accademicamente parlando, a un quarto d’ora di ritardo. Boccheggiavano come pesci sazi, ingurgitando patatine e birre come se gli avessero installato un meccanismo all’altezza delle mascelle.

Poco più in là stavano i veterani, appesi ai loro drummini spenti e rispenti. Dalle loro micronuvole di tabacco si propagavano blandi temporali di esternazioni unidirezionali, piccoli comunicati stampa per un pubblico inesistente. Il leitmotiv era “dimostro la mia apertura mentale fingendomi intollerante”. Il menu presentava etero che parlavano di froci, gay che insultavano negri, neri che inneggiavano ai partiti xenofobi, donne che contestualizzavano stupri in presenza di abbigliamenti femminili troppo succinti e uomini che lamentavano la scarsa copertura mediatica degli episodi di violenza contro i loro pari sesso, evidenziato dalla mancanza di un termine come “uominicidio”.

Verso le ventitré molti membri degli StraLunati si resero conto di trovarsi nel limbo di metà settimana e che l’indomani si sarebbero dovuti alzare a un orario decente, come promesso a loro stessi. Con una certa flemma, iniziò il valzer della ricerca di cappotti, sciarpe, borse e tascapane.

Nello stesso momento il signor Donato imboccò il vicolo in cui si trovava la sede dell’associazione culturale. L’anziano uomo era uno dei pochi invisibili di quella cittadina piuttosto benestante. Sulla settantina, costantemente avvinazzato, indossava un logoro cappotto blu scuro stretto stretto, a evidenziare una pancia colma più di vizi che di pane. La sua testa era nuda, calva e tonda, imperlata di sudore a dispetto del clima rigido; sul volto si scorgevano appena dei lineamenti arrossati dal freddo e contratti in una smorfia rassegnata. A Coldelmonte nessuno ricordava più perché si fosse ridotto in quel modo: la disoccupazione, un incidente, un divorzio, psicofarmaci o tutto questo insieme.

Non era silenzioso il signor Donato, aveva molto da dirsi in quelle lunghe notti da trascorrere passando da un androne all’altro, alla ricerca di portoni semichiusi e condòmini compiacenti. Quella sera però si era trincerato in un silenzio causato dall’incessante battere dei propri denti. La temperatura si stava rapidamente abbassando, una robusta tramontana aveva già fatto pulizia di nubi nel cielo.

Nella penombra di quel vicolo male illuminato, l’anziano scorse il gruppetto di persone che sostava davanti all’associazione. Si avvicinò seguendo l’istinto di cercare punti riparati in prossimità di luoghi frequentati. Nessuno si curò di lui, gli artistintellettuali erano impegnati in una discussione sulla figura della settimana bianca nella cinematografia di Vanzina.

Il signor Donato era molto miope e per altri motivi ci vedeva persino doppio, ma sull’insegna listata in oro scorse nitidamente “…Luna…” e “culturale”, quindi si sentì come in dovere di dare il proprio contributo. Gli piaceva comporre dei semplici versi, riusciva così a memorizzarli facilmente. Non si considerava di certo un poeta ma, in fondo, non si considerava proprio nulla e ormai aveva perso da tempo l’abitudine di interrogarsi sulla propria esistenza. Certo, le poche volte in cui si era arrischiato a recitare versi in pubblico era divenuto oggetto di scherno e battute sul suo stato, come dire?, lievemente alterato. Tuttavia, rassicurato dalla lettura delle parole luna culturale, si fece coraggio e prese a declamare:

«Freddo è l’oblio in cui sono immerso, triste e beffardo è il destino perverso…».

Erano lì, erano in venti. Dalle vacanze vanziniane passarono, del tutto indifferenti alle parole dell’anziano, a caldeggiare l’eventualità di una vegan week di gruppo per riprendersi dai cenoni e presentarsi all’appuntamento di Capodanno in forma smagliante. Avrebbero documentato la loro impresa attraverso delle stories da pubblicare sul profilo Instagram dell’associazione; l’hashtag sarebbe stato #felicevegannonuovo.

Donato, confuso da quei discorsi pieni di parole a lui ignote, proseguì:

«Dimenticato da questo universo, prendo soltanto… il che m’è concesso…».

Bocciata la vegan week per paura di perdere eventuali follower vegani suscettibili, i membri dell’associazione affrontarono la spinosa questione di come organizzare la cena-raccolta fondi per la carestia in Niger evitando che la loro sede si riempisse di immigrati. Venne proposta una selezione di massimo cinque esponenti del centro di accoglienza locale, purché venissero già mangiati.

«Luna che ascolti ogni mio turbamento, pronta tu accogli il mio vuoto lamento…».

L’anziano uomo pronunciò questo passaggio con un tono di voce elevato, esalando un umile effluvio di Tavernello enfatizzato dall’assenza forzata di igiene orale. Di tacito ma comune accordo, gli artistintellettuali si salutarono in una girandola di goliardiche bestemmie, gridolini, notifiche e altri suonini indistinguibili che si ovattavano con l’accelerare dei loro passi.

«Questi che vedo saranno un po’ umani?…».

La domanda dell’anziano svanì nei vapori del suo fiato. Le sagome di quei tizi erano già lontane, claudicavano verso le invitanti luci del centro.

«Possiate morì tutti quanti domani» concluse il signor Donato.

PIACERE, SIGNOR BUKOWSKI

Non ho mai letto un libro di Charles Bukowski. Non ho mai pensato di leggere un libro di Charles Bukowski. Così come non ho mai visto la saga di Star Wars o le serie Game of Thrones e Trono di Spade. Ho appena scoperto che queste ultime due sono persino entità separate.

Qual è il punto? Nessuno. Notavo che non ho fatto molte cose che hanno fatto tutti. Stasera cercavo di capirne di più. In un locale che frequento, c’era proprio una lettura di scritti di Bukowski accompagnata da canzoni americane o giù di lì. Sorseggiavo un amaro nella stessa misura in cui dovevo centellinare le spese; credevo di avere più denaro sulla PostePay e invece ho scoperto che fino a sabato mi rimangono pochi euro.

Alla gente presente nel locale, di Bukowski non fregava assolutamente nulla. Anzi un cazzo, come avrebbe scritto lui. Alcuni erano lì in quanto amici dei lettori e dei musicisti sotto i riflettori. Altri erano avventori abituali. Si, qualcuno poi era realmente interessato, ci mancherebbe. Io sono entrato sapendo che c’era questo evento, ma sarei uscito ugualmente come ogni giovedì. Per la cronaca, dopo aver fatto le prove con una band, mi ero intrattenuto col chitarrista a mangiare una pizza rendendomi conto di come mi restassero pochi soldi. Tornando verso casa, ho lasciato il portone dello stabile semi-aperto. Dopo essermi voltato per chiuderlo, uno dei ragazzi che stazionava nei paraggi deve aver tirato un pugno o un calcione al suddetto portone. Davvero, non saprei spiegare il perché.

Entrato nel salone ho posato al volo lo zaino e mi sono preparato per uscire di nuovo, immaginando uno scenario da film di Al Pacino, con dei sicari che mi attendevano sul pianerottolo per finirmi a causa del misterioso sgarbo del portone chiuso. Invece, in strada c’erano giusto le persone che entravano nel kebab-fast food vicino. Tanto rumore per nulla.

Avviandomi verso il locale della serata su Bukowski, sono passato davanti agli scalini della chiesa di piazza del Comune. Una donna che ho visto almeno cento volte negli ultimi cinque anni ha attirato la mia attenzione, chiedendomi cinquanta centesimi per un caffè. Richiesta esplicita e motivata. Mi sentivo ridicolo a paragonare la mia — temporanea — carenza di denaro con la sua: era senza denti e coi vestiti logori. Come se avessi attivato un juke-box, appena riceve le monete ha iniziato a parlare. Un discorso sconnesso e con una logica impossibile da ricollegare, almeno di non entrare nella sua testa. Riassumendo, credo che abbia rischiato la vita — sua e dei suoi parenti — e che non abbia ricevuto giustizia. Mi ha raccomandato di fare attenzione, non penso si riferisse ai tizi che tirano calci volanti ai portoni.

Ho attraversato la piazza dirigendomi verso la meta con passo svelto. Tirava vento, con in allegato consistenti minacce di pioggia. Dentro c’era calca, al punto che ho dovuto sedermi per terra. Sedersi per terra non è di certo sciatteria: in assenza di meglio è la soluzione ideale. L’alternativa è di rimanere in piedi ed essere massacrati di gomitate; a conti fatti, il flusso umano ha più pietà per chi giace al suolo con le gambe incrociate. Tuttavia, si crea una specie di dislivello tipo “mondo di su e mondo di giù”; è quasi possibile scorgere il sorriso ebete dei privilegiati che stanno là dall’ora dell’aperitivo.

Il tributo allo scrittore americano-teutonico è andato avanti senza intoppi. I curatori hanno concesso al pubblico anche la pausa birra. La loro rappresentazione ha però subìto le interferenze di coloro che preferiscono chiacchierare, perché oramai le persone non ascoltano nulla e credono che anche essere clienti con un vino da cinque euro in mano costituisca una forma d’arte da ammirare. Ho sempre trovato affascinante la questione, l’universo di coloro che parlano AD ALTISSIMA VOCE al cinema o a due metri da un concerto acustico: infastidire sapendo di farlo, come quelli che durante le partite entrano in campo nudi.

Io invece ascolto con attenzione, assimilo i numerosi aneddoti sciorinati dal ragazzo col microfono. A leggere i testi, invece, è un signore con cui anni fa feci un colloquio di lavoro per una ditta che vendeva cialde di caffè. Se avessi accettato, nel giro di poco tempo sarei diventato ricchissimo come lui, soprattutto se avessi portato clienti e altra gente disposta a fare lo stesso lavoro. Non lo feci; il giorno che sarei dovuto presentarmi per comunicare la mia decisione, rimasi a Roma. Una ragazza greca di mia conoscenza era di passaggio da quelle parti. Non me ne pentii ma chissà: forse, grazie alle cialde, al posto di un amaro stasera avrei potuto ordinare due bottiglie di Dom Pérignon.

Tornando alla serata, a un certo punto sul muro è stato proiettato un turbine di citazioni. Le ho lette già in precedenza pur non avendo mai esplorato la bibliografia di questo autore. Bukowski rientra nella categoria dei citati eccellenti. A fargli compagnia ci sono tanti artisti che non hanno cercato la notorietà, ma l’hanno ottenute e pure eterna. Il loro successo è dovuto al mito della loro irraggiungibilità; non credo che molti siano in possesso dei reali turbamenti di personaggi del genere. Ma in fondo, a tutti piace pensare di essere un po’ maledetti. Costituisce una scialuppa di salvataggio, che permette di non accettare inconsciamente di dover vivere una vita normale e ordinaria. Ecco perché attorno a me vedo tanti aspiranti Jim Morrison e Amy Winehouse, De André rampanti e Betty Page tatuate, ma nessuno di loro diventerà un’icona per le generazioni future. Ecco perché i locali restano aperti fino a tardi la sera, veti nazi-comunali permettendo. Ecco perché l’alcol e le sigarette aumentano e nessuno protesta. C’è bisogno di queste irrazionali valvole di sfogo. C’è bisogno di non credere che l’esistenza si riduca al monologo finale di Trainspotting.

Finito lo spettacolo, ho deciso di indugiare troppo nel locale che iniziava a svuotarsi. Mi sono quasi vergognato delle cose che ho pensato mentre ascoltavo. So che domani non andrò a comprare libri di Bukowski, in un’ora mi hanno spoilerato tutto. Non è una buona scusa, quindi aggiungo che ho da leggere un quantitativo di libri arretrati da riempire la biblioteca d’Alessandria d’Egitto. Mi farebbe piacere sapere come reagirebbe Bukowski in persona a eventi come questo. Sarei curioso di sapere se personaggi come lui oggi troverebbero posto in un mondo che li prende a modello senza assumerne i connotati più scomodi, eccezion fatta per le sbronze.

DIRITTI NEL VUOTO

Brutta storia, quella degli extracomunitari (inizialmente sei, ora quattro) che in quel di Brescia hanno deciso di protestare rimanendo su una gru per giorni interi. Il nocciolo della questione lo sappiamo tutti: la protesta è verso le prese in giro che devono subire gli immigrati nel loro cammino verso l’integrazione. Per la maggior parte di loro integrarsi vuol dire riuscire a farsi spazio nel mondo del lavoro italiano, quel tanto che basta per riuscire a vivere dignitosamente, cosa impossibile nei loro paesi. Ma c’è sempre chi se ne approfitta, ed approfittarsi della disperazione di gente priva della padronanza necessaria per districarsi in una cultura diversa è facile come rubare un lecca lecca ad un bambino, e del gesto ne include anche la profonda vigliaccheria.

Promesse di permessi di soggiorno non mantenute, leggi vaghe e legislatori xenofobi rendono la situazione fin troppo torbida, con il solito contorno all’italiana di cariche verso i manifestanti (mandate in onda giovedì ad Annozero) e chiacchiere democristian-style prive di prese di decisione.

E’ mai possibile che non possano esistere leggi chiare e inequivocabili sulla questione degli immigrati? L’Italia è una terra promessa da tanti anni per migliaia di persone: eppure, complice la solita immensa confusione che ha caratterizzato ogni singolo governo italiano, siamo ancora lungi dall’aver partorito soluzioni adeguate. La verità è che gli immigrati in Italia servono eccome, purchè appaiano perennemente come i cattivi della situazione; devono allo stesso tempo lavorare sodo e passare per infidi disonesti, allo scopo di trovare il solito capro espiatorio da dare in pasto alla stampa per tenere buoni gli elettori.

Nel nostro paese un dato di fatto (la massiccia presenza di stranieri) continua a passare per una scocciatura perennemente in bilico tra sterili moralismi e barbarie da inquisizione.

ERA EVITABILE

La notizia della sospensione della partita tra Italia e Serbia è l’emblema delle tante chiacchiere e dei pochi fatti in tema di sicurezza negli stadi. Persino i sassi sanno che alcuni ultras serbi sono tutt’altro che interessati alle vicende di Stankovic e compagni ed il loro unico scopo è quello di rivendicare i propri ideali nazionalisti. Erano partiti con l’obiettivo di far sospendere la partita e ci sono riusciti: ci mancava un tappeto rosso che li conducesse in tribuna.

Ebbene si: i disordini erano già iniziati nel pomeriggio e stanno proseguendo anche ora fuori dallo stadio. Dico io: perchè si permette a questa gente di accedere agli stadi, peraltro armati di fumogeni e bengala? Com’è possibile che al signore qui in alto  sia stato permesso di diventare una specie di eroe inquadrato dalle tv di tutto il mondo assolutamente indisturbato mentre compiva atti di inequivocabile teppismo? Cosa aspettavano le forze dell’ordine ad intervenire, che ci scappasse il morto?

In questa situazione hanno perso tutti, tranne forse quei settanta-ottanta tifosi serbi che hanno ottenuto una visibilità mediatica internazionale nel tentativo di far valere le proprie ragioni. Ci sono delle motivazioni alla base delle loro azioni (ad esempio la questione kosovare), e se ne può discutere… ma non è giusto che ci vadano di mezzo dei tifosi innocenti. I problemi del mondo non si risolvono sulle gradinate degli stadi.

Eppure sarebbe bastato semplicemente non farli entrare.

LA MEMORIA… CORTA

Oggi è il 27 gennaio, giornata dedicata alla memoria delle vittime dell’Olocausto. La Shoah, come tutti sapete, è stata una delle più cruente dimostrazioni della potenziale bestialità dell’essere umano. La cosa più sconvolgente è leggere, come di consueto, le notizie che riportano la presenza delle solite scritte antisemite atte a rinnegare la Shoah stessa. In questo giorno infatti si risvegliano gli animi di coloro che ancora condividono e diffondono simili ideali razzisti e, lasciatemelo dire, anacronistici.

La storia in questi anni è andata avanti, e continuare a supportare teorie razziste mi sembra così stupido da farmi realmente dubitare sulla sanità mentale di certe persone. Sarà anche banale ripeterlo, ma dietro a questa nuova escalation di razzismo (che non si limita certo all’antisemitismo) ci sono delle leggi poco dure in materia. Ancora si permette a certi personaggi politici (e non) di diffondere i loro messaggi di cieca e patetica intolleranza.

Come sempre, mi piace ricordare che fino a un secolo fa gli ebrei, i negri e gli zingari del mondo si chiamavano “italiani” e nei luoghi dove essi emigravano venivano considerati un problema sociale, una banda di sub-umani da ghettizzare per evitare che contaminassero le società più civilizzate.

Questa è la vera memoria: ricordiamoci che anche noi italiani siamo stati emarginati e discriminati, per lunghi anni… come possiamo rinnegare tutto ciò solo perchè ora viviamo nel benessere? Non sarebbe come sputare in faccia a tutti gli emigrati del passato che si sono spaccati la schiena e hanno accettato umiliazioni pur di garantire un futuro alle loro famiglie rimaste nella nostra penisola? Cosa sarebbe stato dell’Italia senza queste persone?